Telecom Italia, capitani coraggiosi e di sventura lungo il filo rosso del sistema Inizia e finisce con una operazione di sistema

made-in-italy-saleLogo fatto quotidiano La saga dei 16 anni di privatizzazione del monopolista italiano delle telecomunicazioni che ha portato 12 miliardi allo Stato e 29,9 miliardi di debiti al gruppo. I guadagni veri sono andati ad altri.

di Costanza Iotti | 24 settembre 2013

Più informazioni su: Assicurazioni Generali, Banca Intesa Sanpaolo, Marco Tronchetti Provera, Massimo D’Alema, Mediobanca, Rete Telecom, Roberto Colaninno, Romano Prodi, Telecom Italia.

Più informazioni su: Assicurazioni Generali, Banca Intesa Sanpaolo, Marco Tronchetti Provera, Massimo D’Alema, Mediobanca, Rete Telecom, Roberto Colaninno, Romano Prodi, Telecom Italia.

E’ a tutti gli effetti un’operazione di sistema. Solo che al posto di salvare Telecom Italia, salverà i resti del salotto buono della finanza italiana. Intesa e Mediobanca in primis. Già perchè i soci finanziari di Telco, con l’accordo raggiunto con Telefonica, ci guadagnano. O quanto meno limitano le perdite. Del resto la storia di Telecom Italia è costellata di azionisti che incassano, mentre l’azienda viene spolpata staccando lauti dividendi e caricata di altro debito. Non molto di nuovo sotto il sole, quindi, da quel lontano 1997 quando Romano Prodi decide la privatizzazione del monopolista telefonico italiano.

Sin da subito per la cessione del 42% della società, la politica cerca uno zoccolo duro di soci amici. E lo trova nella famiglia Agnelli con Guido Rossi che, invitato da Carlo Azeglio Ciampi, diventa presidente del gruppo. Il Tesoro incassa 12 miliardi di euro. Rossi resta alla guida di Telecom solo sette mesi sostenendo di aver realizzato “l’unica vera privatizzazione d’Italia” e passa la mano a Gian Mario Rossignolo, il “very powerfull president” durato pochi mesi recentemente arrestato per “truffa ai danni dello Stato” nel luglio 2012. Risale a quegli stessi anni l’arrivo al timone di Telecom di Franco Bernabé, l’attuale presidente esecutivo del gruppo.

E’ il momento delle valutazioni stellari del mondo delle telecomunicazioni e di internet. Anche in Italia, nel 1999, si quotano a prezzi stellari società come la Tiscali di Renato Soru. Così Bernabé immagina per Telecom Italia un futuro internazionale attraverso le nozze con Deutsche Telekomper osteggiare l’Offerta pubblica di acquisto, a debito, lanciata dai capitani coraggiosi sotto la guida di Roberto Colaninno e con la neutralità del governo D’Alema. L’operazione a Bernabé va male ed è costretto a fare le valige per lasciare spazio al ragioniere di Mantova che oggi è in sella alla Vespa via Immsi. E che, soprattutto, è lo stesso che in queste ore sta trattando con Air France l’uscita da Alitalia dopo che,  nel 2008, era stato il capofila dei 21 patrioti di Silvio Berlusconi che avevano rilevato le parti buone di Alitalia lasciando i resti allo Stato.

Colaninno e i suoi alleati, il finanziere di Brescia, Emilio Gnutti, e l’ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, oltre a MpsFininvest, conquistano il controllo di Telecom attraverso una scatola lussemburghese, la Bell, con il supporto della banca americana Chase Manhattan. L’operazione è benedetta dall’allora presidente del consiglio, Massimo D’Alema, che 24 ore prima dell’annuncio dell’Opa, pronuncia il celebre elogio dei “capitani coraggiosi”.

Quelli che poi quando venderanno, nel 2001, il 23% di Telecom a Marco Tronchetti Provera e alla sua scatola Olimpia, incasseranno 6,65 miliardi con un guadagno netto di 1,5 miliardi di euro.

Al numero uno della Pirelli, che era affiancato da IntesaUnicredit, il controllo della società andò senza il lancio dell’offerta pubblica di acquisto a danno dei piccoli risparmiatori che non beneficiarono degli stessi guadagni di Colaninno e soci. L’enorme plusvalenza registrata da Bell, intanto, finisce sotto la lente della Procura che accerta una maxifrode fiscale. Tanto che l‘Agenzia delle Entrate finisce per comminare una multa da 1,9 miliardi, ma al Fisco arriveranno solo 156 milioni per effetto di una riduzione della sanzione.

Ma i problemi non si fermano qui. La Telecom comprata da Tronchetti ha già 35,6 miliardi di debito, cifra di gran lunga superiore agli 8,1 miliardi dell’azienda comprata da Colaninno. E ha anche perso pezzi industriali importanti come Sirti Italtel. Il numero uno della Pirelli, alle prese oggi con la ristrutturazione del proprio gruppo, non riesce a fare meglio dei suoi predecessori. In più lequotazioni del titolo continuano a scendere per effetto dello sboom delle telecomunicazioni. Senza contare l’affaire dossieraggio della security Telecom gestita da Giuliano Tavaroli, da cui Tronchetti nel luglio scorso ha ereditato una condanna in primo grado del tribunale di Milano a un anno e otto mesi anni per ricettazione sul caso Kroll.  Non molto tempo dopo l’esplosione del caso, nel 2007, complici le indiscrezioni sulle avances del re delle tlc messicane, Carlos Slim e del gruppo Usa AT&T, il numero uno della Pirelli riesce nell’impresa di cedere Olimpia e, quindi, il controllo su Telecom per 4,16 miliardi di euro, somma che valorizza la società di telecomunicazioni 2,8 euro per azione.

Ad acquistare, previo l’intervento del governo Prodi, è la holding Telco. Nell’azionariato a sorvegliare gli spagnoli di Telefonica, il trio Generali, Intesa e la Mediobanca di cui Tronchetti è oggi vicepresidente. Nel compagnie c’è pure la Sintonia dei Benetton che, oltre ad aver partecipato con entusiasmo alla privatizzazione di Autostrade e Autogrill, erano entrati in Telecom nel 2001 a sostegno di Tronchetti per uscirne con le ossa rotte nel 2010 quando si era posta la scelta tra un nuovo impegno finanziario e la registrazione dell’ennesima perdita sull’investimento iniziale. Da allora ai giorni nostri la strada è breve. La società dalla privatizzazione fino alla cessione a Tronchetti ha distribuito 21 miliardi di dividendi. Mentre oggi  ha un debito da 29,9 miliardi con un asset strategico come la rete a essenziale garanzia. Questa volta, però, ad aver bisogno di aiuto non è solo Telecom. Ma anche le banche e le assicurazioni che dopo aver perso danaro a fiumi in nome del sistema, ora devono rafforzare i propri bilanci sulla scia di quanto chiesto dalle nuove regolamentazioni europee. Addio quindi operazioni a leva finanziaria. E anche ai capitani coraggiosi.

Telecom passa a Telefonica. Il capitalismo italiano e l’arte di spolpare le prede

Dopo essersi contesi per 16 anni il controllo dell’azienda Mediobanca, Intesa e Generali l’hanno consegnata per pochi spiccioli alla società di telecomunicazioni iberica. Che però non investirà un euro per rilanciare il concorrente

Presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè.

Presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè.

Oggi Telecom, gravata ab origine da miliardi di euro di debiti mai ripianati. Domani Alitalia, che potrebbe diventare francese con sei anni di ritardo rispetto all’ipotesi originaria contro cuiBerlusconi costruì la retorica elettorale dei patrioti. Il capitalismo senza capitali all’italiana svende i suoi antichi gioielli, ma non prima di averli spogliati di tutto. E se il caso Parmalat fece esplodere il marcio del sistema – e regalò ai francesi di Lactalis una azienda produttivamente sana ma economicamente fondata sui falsi in bilancio – non c’è bisogno dei processi per avere il quadro di un Paese in saldo. Il caso della compagnia di bandiera, che doveva restare italiana e oggi rischia di cambiare nazionalità a prezzo da outlet, rimane la cartina di tornasole di un osso – l’industria italiana – spolpato fino al midollo e poi lasciato al suo destino. E se nel 2007 Air France era pronta ad offrire sei miliardi per accollarsi il nostro vettore, oggi prende tempo, chiede rassicurazioni e punta a spendere il meno possibile senza prendersi i debiti, mentre l’operazione italianità ha accumulato più di un miliardo di rosso e i cittadini si sono accollati i 4,5 miliardi di costi dell’operazione.

Telecom, insomma, non fa eccezione alla logica dei poteri (ex) forti. Non a caso, immediatamente dopo l’ufficializzazione della vendita, Mediobanca ha diramato una nota per proclamare l’utile realizzato con la prima fase dell’operazione. In dettaglio, si legge, a seguito dell’aumento di capitaleTelco sottoscritto da Telefonica, operazione che valorizza Telecom Italia con un premio dell’85% rispetto alle attuali quotazioni, la partecipazione Mediobanca al capitale sociale di Telco si riduce dall’11,6% al 7,3% (e quella in trasparenza in Telecom Italia dal 2,6% all’1,6%). Inoltre a seguito del parziale acquisto da parte di Telefonica del prestito soci, Mediobanca riduce il prestito soci di pertinenza per 35 milioni (da 78 a 43 milioni) attraverso il concambio in azioni Telefonica e realizza un utile di circa 60 milioni realizzato nel primo trimestre. Del resto si parlerà con l’anno nuovo.

Tradotto, dopo essersi contesi per 16 anni il controllo di Telecom Italia, trofeo ambito nelle loro guerre di potere, gli ex poteri forti l’hanno consegnata, per pochi spiccioli, a Telefónica España,rattoppando in questo modo i propri bilanci.

 Nel frattempo Telecom è stata una macchina da soldi che ha propiziato arricchimenti e carriere. Adesso non c’è più niente da spolpare ed è un problema di cui liberarsi al più presto. Le cosiddette “banche di sistema” e i profeti dell’italianità riscoprono gli imperativi categorici del mercato. Il governo tace. Il viceministro alle Comunicazioni, Antonio Catricalà, ha detto ieri: “Vorremmo che tutte le aziende fossero italiane, ma non viviamo nel mondo dei sogni”.

Altro che Agenda Digitale: l’Italia rischia di restare senza Internet e pure senza telefoni. Un’esagerazione? La complessa partita a scacchi che sta portando all’eutanasia di Telecom rende fondato il timore.

Al centro della scena c’è il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Ha bisogno di capitali da investire sulla rete del futuro ma l’azienda non li ha perché è ancora gravata da 40 miliardi di debiti accumulati da Roberto Colaninno (che scalò il colosso a spese della stessa Telecom nel 1999) e da Marco Tronchetti Provera che la rilevò nel 2001. Bernabè punta a a un aumento di capitale, cioè i soci che iniettano denaro nell’azienda.

Ma i padroni di Telecom non vogliono scucire un euro, perché quando hanno comprata lo hanno fatto per il controllo (in italiano corrente: il potere) e non per investire nelle telecomunicazioni. E del resto è comprensibile, basta guardare come è composto il salotto buono denominato Telco. Questa scatola appositamente costituita nell’aprile 2007 ha acquistato dalla Pirelli di Tronchetti le azioni Telecom a 2,8 euro l’una, con un investimento di 4,5 miliardi.

Oggi il 22,45 per cento di Telecom, che basta a Telco per comandare, vale in Borsa circa 750 milioni (ieri il titolo ha chiuso a 0,59 euro: in sei anni hanno perso tre quarti dell’investimento). I soci di Telco sono Telefónica España con il 46,18 per cento, Mediobanca e Intesa Sanpaolo con l’11,62 per cento a testa e Assicurazioni Generali con il 30,58 per cento. Il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, ha detto a chiare lettere che lui vuole sbarazzarsi dell’imbarazzante investimento, e che certo non si sogna di mettere altri soldi. Il boss di Generali, Mario Greco, è sulla stessa linea: come spiegare agli azionisti che la compagnia ha perso un miliardo e mezzo per giocare con i telefoni? Nagel e Greco hanno dichiarato all’unisono guerra a salotti, patti di sindacato e capitalismo di relazione, e si comportano di conseguenza. Tace con vivo imbarazzoEnrico Cucchiani, capo di Intesa Sanpaolo, che si è autoeletta “banca di sistema” (ha all’attivo il capolavoro della difesa dell’italianità di Alitalia).

Il numero uno di Telefónica si è rassegnato a offrire agli altri soci Telco fino a 1,09 euro per azione, più del doppio del valore di mercato (perché loro possono, ai piccoli azionisti invece non tocca niente se il controllo delle società quotate si scambia con meno del 30 per cento delle azioni). Le trattative sono ferventi, con varie riunioni nella sede milanese di Mediobanca. In pratica Cesar Alierta pagherà al massimo 850 milioni, probabilmente in due tranche. Per una società che vale inBorsa oltre 11 miliardi è un sacrificio accettabile, soprattutto se serve a paralizzarla.

Alierta non intende mettere un solo euro nella società italiana. Ha già detto a Bernabè che se vuole investire sulle tlc italiane può vendere Telecom Argentina e Tim Brasil, cioè i due unici pezzi del residuo impero che producono utili. Il fatto è che in Argentina e Brasile ci sono anche le controllate di Telefónica, alle quali le società italiane fanno una fastidiosa concorrenza. E la sorte di Telecom Italia senza l’America Latina è segnata.

Gli azionisti italiani in fuga hanno un alibi perfetto: anche se non vendono è uguale. Infatti nel 2007, all’inizio dell’avventura, hanno consegnato ad Alierta un diritto di veto su ogni decisione importante, per esempio gli aumenti di capitale. Quindi Bernabè, anche se Mediobanca, Intesa e Generali non vendessero, non potrebbe mai portare al cda la proposta di aumento di capitale, perché Alierta la bloccherebbe. E neppure un aumento di capitale riservato a un nuovo socio: siccome si parla di 3/5 miliardi, chi paga diventa padrone e Alierta non vuole. Bernabè ha fatto sapere che se le cose vanno avanti così, il suo addio sarà automatico. Ma la Telecom è stata consegnata al suo concorrente Telefónica nel 2007, e la politica se ne accorge (forse) solo adesso che è tardi. Infatti fa finta di niente.

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