Giancarlo Elia Valori – GEOPOLITICA DELL’ ACQUA – La Corsa all’Oro del Nuovo Millennio. In omaggio alla Giornata Mondiale dell’Acqua del 22 marzo, voluta dal 1992 dall’ONU.


Breve Clip tratta da Quantum of Solace

Geopolitica Dell'Acqua - La Corsa all'Oro del Nuovo Millennio

Geopolitica Dell’Acqua – La Corsa all’Oro del Nuovo Millennio

In calce nostra Intervista a Giancarlo Elia Valori (Link: http://youtu.be/NXh4MD_Y4rI )

The question is : chi è stato per primo, tra Bond e Valori a sollevare il più grande problema che la Terra e ed i suoi abitanti dovranno affrontare nel prossimissimo futuro ?

Lo sceneggiatore premio Oscar Paul Haggis di Quantum of  Solace del 2008 dove Bond affronta una potente organizzazione terroristica denominata Quantum, che intendeva favorire un colpo di stato in Bolivia per appropriarsi delle forniture d’acqua dell’intera nazione, era già al corrente delle bozze del lavoro di Giancarlo Elia Valori ?

Scherzi a parte, sappiamo che le sceneggiature di diverse film della saga Bondiana non sono scritte casualmente ma spesso sono ispirate direttamente dal vero SIS ( Secret Intelligence Service) i cui analisti offrono con discrezione spunti per scenari già attuali ma poco indagati o futuribili.

E sappiamo, di certo, che Giancarlo Elia Valori può contare sul privilegio, grazie alla sua pluridecennale conoscenza degli attori sulla scena globale ed alla sua personale capacità interpretativa dei fenomeni e della loro probabile evoluzione, di anticipare spesso con le sue pubblicazioni gli scenari presenti e futuri e le loro implicazioni geopolitiche-strategiche.

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Seguo ormai da più di vent’anni le pubblicazioni di Giancarlo Elia Valori.

Marcello Lopez e Giancarlo Elia Valori

Marcello Lopez e Giancarlo Elia Valori

A lui devo la scoperta di quanto sia appassionante la Geopolitica perché in essa è racchiuso tutto: la Politica (con la P maiuscola) , la strategia, l’apprendimento di una incredibile mole di dati ma soprattutto la consapevolezza di scenari enormi e di come questo piccolo pianeta Terra sia fragilmente connesso ad un intricato ordito di fatti, cose e persone che spesso la nostra routine quotidiana ci porta ad ignorare nel peggiore dei casi o a dimenticare nel migliore.

Quando lessi per la prima volta il titolo del libro di Giancarlo Elia Valori ” Geopolitica delle Acque-La Corsa all’Oro del Nuovo Millennio “ confesso che pensai «Interessante ma con un focus troppo mirato per non risultare un po’ pesante da digerire».

Ed invece….in quale enorme errore di valutazione incorsi !!!

G.E.Valori, A. Pazner, M.Sechi.

G.E.Valori, A. Pazner, M.Sechi.

Geopolitica delle Acque nasconde un vero e proprio manifesto economico e politico che mai avevo visto così esplicitamente declamato e supportato da robuste argomentazioni nelle precedenti pubblicazioni di  G.E.Valori.

Valori sempre si era attenuto, da studioso da par suo,  a delle analisi acute e documentatissime che mai avevano però travalicato la diagnosi del o dei problemi, con la lucida freddezza dell’analista che osserva i fatti da cui ne fa conseguire le varie ipotesi di evoluzione probabile.

No, qui Valori butta il cuore oltre l’ostacolo, tanto che, chi non fosse a conoscenza del suo Cursus Honorum e della sua composta allure, retaggio dell’ aplomb tipico del Grand Commis d’état, dopo la lettura di “ Geopolitica delle Acque “ potrebbe tranquillamente immaginarlo alla stregua di Paul Krugman, Robert Reich e Joseph Stiglitz  in rapporto a quel sentiment che partito da Occupy Wall Street ha diffuso la consapevolezza che i vecchi schemi economici/strategici ed i vecchi steccati ideologici non sono più all’altezza delle enormi sfide che attendono il Pianeta Terra.

La crisi economica ha costretto tutti a riflettere più profondamente sulle “magnifiche e progressive sorti” del mercato. Il crollo dei maggiori attori finanziari è anche la crisi di un pensiero economico che mette al centro un individuo astratto e decontestualizzato, atomo tra atomi, dimenticando la pluridimensionalità e soprattutto la natura relazionale che caratterizza la persona e, di conseguenza, il suo agire politico ed economico.

Come ha scritto Giovanni Osea Giuntella Ph.D. Candidate in Economics, Boston University, IZA Research affiliate «non è un caso che proprio di fronte alla grande depressione del 1929 il filosofo Emmanuel Mounier avesse indicato nel personalismo la possibile “terza via” tra l’individualismo liberista e il totalitarismo comunista. Anche il recente successo di nuovi filoni di ricerca, come l’economia comportamentale e gli studi sul rapporto tra economia e felicità, sembra testimoniare l’esigenza di allargare la riduttiva nozione di utilità individuale su cui si fonda l’economia classica, nel tentativo di comprendere meglio i comportamenti delle persone e la natura costituzionalmente relazionale dell’uomo.

A. Pazner, M.Sechi.

A. Pazner, M.Sechi.

Negli ultimi anni, e ben prima che scoppiasse la crisi dei mutui, diversi studiosi ed esperti avevano evidenziato i pericoli di una globalizzazione sfrenata e di un mercato sempre più fuori controllo. Paul Krugman, Robert Reich e Joseph Stiglitz sono tra coloro che hanno dedicato maggiori energie a sensibilizzare l’opinione pubblica e i policy maker intorno a questi temi. Ognuno di loro ha evidenziato le possibili derive del capitalismo e sottolineato la necessità di ridefinire le regole del gioco, rivedere le priorità del nostro sistema di sviluppo e riorientare gli obiettivi di politica economica tenendo conto anche della loro sostenibilità sia ambientale sia sociale.

Tutti e tre concordano su un punto: per uscire dalla crisi del supercapitalismo e correggere gli effetti collaterali della globalizzazione, l’unica via è la partecipazione democratica dei cittadini. Solo esprimendo una governance responsabile e lungimirante, capace di resistere alle pressioni delle varie lobbies, si potrà invertire la rotta».

Ma andiamo con ordine.

Video Intervento di G.E. Valori

In Geopolitica delle Acque ci si imbatte in una sequela di affermazioni scioccanti e purtroppo incontrovertibili di cui la prima è la seguente: « per produrre una tonnellata di grano occorrono mille tonnellate di acqua. »

Dopodiché Valori, con la completezza documentale, cha da sempre lo distingue, tratteggia il panorama mondiale dello stato delle acque.

Senza entrare nel dettaglio che lasciamo al lettore mi preme fare un sintetico ma preoccupante accenno sulle aree del mondo che sono o saranno presto, se non verrà invertita la rotta, causa di perturbazioni e rivolgimenti che avranno ripercussioni planetarie.

Sorvolerò sulla tensione “idrica” tra Anp, Giordania e Israele e sulla estrema vulnerabilità di quest’ultimo sull’approvvigionamento perché già abbastanza noto tra gli addetti ai lavori così come sulle mire egemoniche della Turchia tramite una politica idrostrategica sui vicini Iraq e Siria.

Ciò che più inquieta, per esempio, è venire a conoscenza che l’oil depletion dell’Iran « dovrebbe portare la repubblica sciita alla “somma zero” della disponibilità di petrolio da esportazione entro il 2012 – 2013 e che la necessità di acqua per i pozzi petroliferi del Paese è, secondo i dati più recenti, di 687.320 metri cubi al giorno di acque desalinizzate, allora scopriamo che anche l’estrazione del petrolio, che richiede sempre più acqua quanto più il pozzo si impoverisce, gioca sia contro l’agricoltura sia contro la stessa programmazione nucleare militare-civile», pertanto « se l’Iran non ha più le risorse economiche derivanti dal petrolio per il suo nucleare da desalinizzazione, allora non potrà nemmeno gestire una sua futura autonomia geoeconomica dal sistema OPEC » rendendo così plausibili delle opzioni che potrebbero  innescare una guerra regionale e poi globale colpendo Israele e quindi « chiamando l’Occidente nell’area ed anche minacciare sul piano nucleare/missilistico il Golfo Persico, per globalizzare la minaccia iraniana rendendo Teheran il master strategico del passaggio degli idrocarburi dallo Shat el –Arab».

G.E.Valori, A. Pazner.

G.E.Valori, A. Pazner.

Ma Valori pensando di non averci spaventato ancora abbastanza rincara la dose.

Dopo aver premesso che « la lotta “senza prigionieri” per l’acqua diverrà ancora più feroce di quella per il petrolio e il gas» e averci ricordato che « secondo Goldman Sachs, entro il 2032 India, Cina, e Federazione Russa ( insieme col Brasile ) saranno capaci di replicare la forza del G8» ci mette sull’avviso sottolineando il “diverso” concetto di Liberismo dell’Asia “liberista” « quando si tratta di penetrare i mercati euroamericani, ma che ragiona con criteri protezionisti qualora si metta in discussione la gestione delle risorse primarie o esclusive dell’area dello Heartland.

L’acqua, dunque, è la nuova materia prima strutturalmente rara, che Cina , India e Russia e gli altri Paesi asiatici non mancheranno di utilizzare, come i paesi del Golfo hanno gestito il petrolio e oggi gestiscono il gas naturale, per far pagare, rebus sic stantibus, il costo non solo del proprio decollo economico ma del superamento geopolitico dell’Occidente all’ Occidente stesso, il quale rimarrà debitore strutturale sia per le materie prime sia, soprattutto, per le tecnologie. »

Se poi consideriamo che in Cina « le risorse idriche sono ristrette, che l’area del Tibet è decisiva, ma non richiederà solo la repressione, mentre i bacini fluviali del paese di Mezzo sono nove, tutti largamente inquinati. Che trecento milioni di cinesi non hanno la possibilità di accedere ad acqua sana e pulita, mentre il governo cinese ha registrato, nel solo 2005, oltre 50.000 rivolte riguardanti la “salubrità delle acque”, se poi aggiungiamo che Pechino nella linea del suo sviluppo industriale rapido che gestisce la globalizzazione “ingenua” del Washington Consensus del 1989 che ha portato già alla distruzione di 8,5 milioni di ettari di terreni agricoli, si capisce bene come la questione è attualmente dibattuta ai più alti vertici del regime di Pechino» e ne discende come « l’attuale dirigenza del Pcc utilizzerà soprattutto la questione della gestione delle acque e la connessa acquisizione manu militari delle linee idriche indiane e russe, per compensare le sue acque a bassa qualità e alto inquinamento con quello dei fiumi ancora largamenti efficienti sul piano ecologico e geopolitico in India, Pakistan, Bangladesh e Sudest asiatico ( è bene ricordare che il plateau tibetano fornisce acqua al 47 per cento della popolazione mondiale)».

« Se pensiamo che, sempre secondo Goldman Sachs, il consumo di acqua nel mondo raddoppia ogni 20 anni, e che la domanda di acqua supererà largamente l’offerta del 30 per cento entro il 2040, si comprende allora la rapidità e la vera e propria cupidigia di acqua da parte di Pechino e anche l’idropolitica aggressiva di paesi asiatici o euroasiatici come la Federazione Russa e la stessa India.

M.Sechi, P.Savona.

M.Sechi, P.Savona.

Le “guerre dell’ acqua” tra Russia e Cina sono state già numerose: il 14 febbraio 2004 il presidente russo aveva annunciato la presa manu militari delle risorse idriche presenti sulla linea di confine armistiziale sino-russa del 1991, nell’area di Chita».

« Per Mosca la questione delle acque si arrichisce di una nuova caratteristica: le acque russe sono disponibili soprattutto nel permafrost, il suolo perennemente ghiacciato, oltre alle zone dei ghiacci artici e agli Urali, che sono di difficile utilizzazione per l’estrazione di acque».

Dato il clima inospitale vi risiede una popolazione molto diradata: ciò crea una questione riguardo la difesa.

Un attacco della Cina, che ha sempre ritenuto la Russia  “il nemico del Nord”,  sarebbe di difficile contenimento. Fra l’altro, nel 2009, solo il 38 per cento delle città russe poteva utilizzare acque potabili sane.  Inoltre per la Federazione Russa la tematica dell’approvigionamento idrico è essenziale per l’agricoltura».

« Per Mosca la Geopolitica dell’acqua è essenziale: detenendo il 20 per cento di tutte le riserve idriche mondiali, la Federazione Russa può costringere ad una nuova fedeltà le repubbliche islamiche dell’Asia Centrale, salvo i costi faraonici delle operazioni pari a 53 miliardi di dollari e le tecnologie evolute scarseggiano».

« la Cina opera per gestire i “centri “ previsti dalla idropolitica russa, il sistema Amu Darya- Lago Aral e la rete degli afferenti dell’Ussuri, fiume che delimita storicamente il più lungo confine terrestre e il più “caldo” fin dai tempi della guerra fredda ».

« Pechino vuole acqua a buon mercato e geopoliticamente “libera”, per le campagne, dove vuole mantenere la “massa pericolosa”che non può alimentare ancora le future sedici megalopoli mondiali che la Cina sta facendo crescere ».

« L’asse vero dell’idropolitica tra Mosca e Pechino è però l’Amur. Il fiume è il punto di riferimento (e questo per Pechino è un problema politico strategico non irrilevante) di minoranze di origine tangusa, generalmente di radice tartara e con inserimenti mongoli e legami con le tribù cosacche. Non è quindi un caso che Pechino abbia proibito la pesca nell’Amur, attività che è alla base della sopravvivenza delle tribù locali.

Naturalmente il controllo dell’Amur è essenziale per la gestione del Pacifico da parte sia della Federazione Russa sia della Cina ed è proprio il controllo dei mari globali l’obiettivo politico di Pechino e Mosca ».

Anche la Federazione Russa ha i suoi problemi : « pur possedendo un terzo delle risorse globali di acqua utilizzabile per la popolazione e l’agricoltura, tuttavia deve ristrutturare la rete di canali e acquedotti che, fin dai tempi dell’URSS, sono stati lasciati marcire a causa di una gestione quanto meno distratta o addirittura interessata.

Questo stato di cose creerà problemi paralleli sia per l’autonomia energetica russa, che non potrà andare a contrastare una gestione delle acque ecologicamente compatibile, visto che già oggi il 60 per cento dell’acqua potabile russa non è accettabile dal punto di vista sanitario, sia dell’economia in generale».

R.Buttiglione

R.Buttiglione

Come se ciò non bastasse, ad acuire la scarsità “naturale” dell’elemento acqua si è aggiunta la “finanziarizzazione speculativa” del mercato food and water : « le banche, concedono contratti ai produttori di cibo per vendere il loro raccolto a un prezzo prefissato a una determinata data. E’ il classico future. Se però il mercato dei titoli, com’è nella sua intrinseca natura, diviene un oligopolio, e non solo delle informazioni, come lo chiamava Vilfredo Pareto, allora i detentori dei titoli operano scambi indipendentemente dalla variabilità reale della disponibilità dei prodotti al termine dei contratti “future”, e quindi, se i prezzi dei contratti, che rappresentano la quasi totalità delle transazioni, vanno verso l’alto, anche i prezzi dei prodotti reali schizzano verso l’alto».

« Gli effetti, anche in Medio Oriente, sono ormai noti: il 13 per cento di inflazione sul prezzo del cibo in Siria nel 2011, il 26 per cento di aumento dei prezzi, rebus sic stantibus, del cibo in Iran, due volte il tasso di inflazione, il 15 per cento di inflazione del prezzo del cibo in Indonesia sempre nel 2011, aumento di oltre 3,5 milioni di “nuovi poveri” in Pakistan derivanti dal rapido incremento dei prezzi del pane e dei beni alimentari di base ».

« Circa 1,1 miliardo di esseri umani vive, oggi, in condizioni di scarso accesso ad acque di buona qualità, mentre 2,6 miliardi di persone hanno scarso o nullo accesso a impianti igienico-sanitari di base ».

« Se quindi l’ascesa dei prezzi mondiali, soprattutto a causa della scarsità idrica ma anche della speculazione mondiale sulle commodities, genaratasi dalla caduta del dollaro e dalla perdita di attrattività finanziaria dei titoli derivati e di quelli dei vari debiti pubblici, dovesse continuare, come è altamente probabile che accada, la quantità di Stati “terzi” in fase di disarticolazione sociale ed economica aumenterebbe grandemente, preparando un terreno fertilissimo a una trasformazione della jihad della spada. E’un mutamento che possiamo già intravedere: da una logica da “Komintern” islamista nel quale Al Qaida concede il bayat e quindi nomina come sue “sezioni”piccoli gruppi combattenti, si passerà a una jihad della spada di massa, dove vari gruppi, senza il permesso dell’organizzazione di Zawahiri, gestiranno in modo rivoluzionario lo scontento di massa e la sovrappopolazione disoccupata, manodopera ideale per una rivoluzione “permanente”. Potremmo parlare, in un certo senso, di un passaggio dal “califfato in un Paese solo”.

Potrebbe essere questa una chiave per leggere una parte almeno delle rivolte della “primavera araba”.

G.E.Valori, A. Pazner, M.Sechi.

G.E.Valori, A. Pazner, M.Sechi.

A questo punto Valori passa alla disamina delle soluzioni che le Organizzazioni Internazionali tentano di dare a questioni di sopravvivenza così soverchianti che forse l’umanità per la  prima volta si trova a dover affrontare ; e le sue conclusioni sul loro operato non sono incoraggianti.

« L’Onu, facendo perno sul riscaldamento globale, prevede che nel 2025 occorrerà il 100 per cento in più di acque irrigue, mentre la Fao, prevede una nuova concorrenza tra agricoltura e ambiente.

Secondo i dati Onu l’agricoltura contribuisce, da sola, per 14 per cento annuo all’emissione di gas serra ».

Ebbene questo trend che dovrebbe molto seriamente impensierire gli addetti ai lavori viene poi  affrontato dall’Onu, come sottolinea sarcasticamente ( giustamente aggiungo io) Giancarlo Elia Valori, alla stregua quasi di un “tutto va bene Signora la Marchesa”, che così descrive l’approccio dell’Onu : « un certo tono “illuministico”, legato alle “alcinesche seduzioni” delle “belle idee per cui si muore”, come l’avrebbe chiamato Benedetto Croce può forse avere modificato la visione degli analisti delle organizzazioni Onu. In base agli studi più diffusi in materia, le conseguenze dell’aumento dell’effetto serra saranno che, nell’ordine, le aree agricole si sposteranno verso nord; si dovranno selezionare specie di granaglie e prodotti agricoli più adatti al nuovo ambiente darwiniano; diminuiranno, proprio in conseguenza della caduta verticale della disponibilità delle acque irrigue, le produzioni di frutta e verdura, ovvero quelle che richiedono più acqua.

Aumenteranno le emissioni di CO2, il che migliorerà la fotosintesi, ma diminuirà la disponibilità di acque per tutti e il livello dei mari s’innalzerà di 10-15 centimetri, con ovvi effetti di salinizzazione di alcune acque sul terreno, le temperature saliranno di circa 1° C annuo, con evidenti effetti sul ritmo di crescita delle piante adatte alla nutrizione umana. Ci sarà inoltre un aumento della velocità dei venti, da cui deriverà una maggiore erosione dei suoli».

Tra le ultime importanti iniziative delle Nazioni Unite c’è quella degli « Obiettivi di sviluppo del millennio, che nel 2000 tutti i 191 Stati membri si sono impegnati a raggiungere per il 2015» .

Tuttavia, nonostante le buone intenzioni « in un più recente rapporto dell’Organizzazione si nota come gli impegni in materia di finanziamento per acqua e impianti igienico – sanitari ai paesi in via di sviluppo siano peraltro minori non solo del necessario ma anche rispetto alle altre voci del sostegno internazionale ai Paesi “terzi”. Ciò provoca una minore efficacia degli aiuti generici all’economia e all’agricoltura del ”Sud del mondo” e soprattutto non permette ( e qui torniamo ai Millenium Goals ) un’agricoltura ecologicamente sostenibile né, sul piano sociologico, la creazione di una classe media stabile che eviti la polarizzazione politica dei Paesi latinoamericani, africani e asiatici investiti dai finanziamenti e dai progetti del Millenium.

G. Letta

G. Letta

Il problema è che, oggi e soprattutto in futuro, tanto maggiore sarà la disponibilità finanziaria nei Paesi “terzi”, tanto maggiore sarà la polarizzazione sociale interna e l’espansione dell’economia grigia e nera nel tessuto locale.

Di conseguenza stiamo assistendo ad una ulteriore proletarizzazione in atto nei Paesi poveri che rende possibile una “dittatura della ciotola”, ovvero un progressivo abbassamento dei salari, già al minimo vitale e una correlata “politicizzazione” del mercato del lavoro e del nesso tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica.

La gestione illegale dei fondi, soprattutto nel settore della salute pubblica in Africa, ha raggiunto livelli straordinari: circa il 38 per cento dei finanziamenti Onu che arrivano per i Millenium Goals viene gestito da politici corrotti per le loro necessità personali e di padrinage politico-clientelare  o familistico. Fra gli analisti ormai  si parla spesso di Paesi in condizione stabile di “non guerra non pace”.

In altri termini, la logica delle “operazioni di interposizione” Onu, come è accaduto in Kosovo, Somalia e Libano, cristallizza i conflitti e crea classi politiche di rentiers per mezzo degli aiuti internazionali, che spesso divengono lo strumento finanziario per il passaggio definitivo all’illegalità economica dei nuovi governanti.

Pertanto nell’utilizzazione dei fondi Onu, oltre a foraggiare la corruzione, sono da mettere in conto anche la loro utilizzazione dual use, per la pace e per la guerra ».

G.De Michelis

G.De Michelis

Due esempi concreti: il primo nel continente africano e il secondo nel continente latinoamericano.

« nel primo caso il Botswana, che non ha impianti idroelettrici e utilizza solo l’energia prodotta da due centrali a carbone, mentre la sua agricoltura regredisce per popolazione impiegata e territorio, fiorisce la sola economia legata all’estrazione dei diamanti, che è evidentemente una fonte di mantenimento”parallelo” delle classi politiche e burocratiche, pur trattandosi di un’attività ad alto consumo di acque (illegale) e ad altissimo pericolo di infiltrazioni della malavita.

L’industria estrattiva del diamante, la più idrodipendente del Continente nero, è una delle cause primarie di destabilizzazione politica, demografica, finanziaria nell’Africa centromeridionale, e potrebbe portare  a tensioni future non molto dissimili dalle diamond wars che abbiamo già osservato negli anni passati ».

« Quello che qui ci preme sottolineare è che il costo dell’estrazioni dei diamanti è comunque elevato ed è da un lato gestito dal sistema della corruzione, dall’altro da un meccanismo di rapido e devastante sfruttamento delle risorse idriche che vengono rese inutilizzabili per lungo tempo, al fine delle attività stanziali agricole ».

Quanto all’America latina emblematico è il caso del Messico.

« Il governo ha istituito una commissione nazionale per le acque (Comision Nacional del Agua o Conagua) che coordina le attività dei vari stati e circa l’80 per cento dei cittadini, oggi, riceve acqua di accettabile qualità, soprattutto nelle aree urbane. Ma novanta milioni di messicani devono filtrare autonomamente le acque pubbliche, il che ha generato un mercato parallelo, gestito spesso da organizzazioni legate ai “cartelli” dei narcos, che dominano le zone di produzione e di passaggio delle reti idriche».

« l’acqua però serve ai cittadini messicani , ma anche alle multinazionali dei gringos: i dirigenti di Conagua provengono dall’agribusiness nazionale e il presidente Vincente Fox è stato direttore delle operazioni della Coca–Cola in Messico e in tutta l’America centrale; il direttore di Conagua, Cristobal Jaimies, è proprietario delle maggiori produzioni di latte nazionali ed è il maggiore produttore di acqua in bottiglia del Paese.

D’altro canto, ben ottomila aziende di imbottigliamento di prodotti idrici o di acqua minerale e le concessioni dei pozzi sono in mano a Coca-Cola, Pepsi e alle multinazionali europee Danone e Nestlé.

E’ il vecchio meccanismo dello “sviluppo ineguale” applicato all’acqua.

Naturalmente questo meccanismo di privatizzazione strisciante dell’acqua messicana con i soldi pubblici ( e gli aiuti internazionali ) non può non interessare i cartelli della droga locali: tanto più aumenta la crisi idrica delle campagne, che producono meno coca, tanto più i cartelli ricorrono alla droga sintetica. Del resto, la coltivazione di coca è molto più remunerativa per il contadino rispetto ai prodotti “normali”, ma la sua lavorazione iniziale è altamente inquinante per l’uso di acido solforico, cherosene, acetone e altri solventi che vanno naturalmente a finire nelle falde acquifere.

In altri termini le economie della dipendenza si finanziano ricorrendo alle loro reti criminali, modellano il mercato del lavoro in modo tale che le multinazionali siano fortemente attratte nel Paese, gestiscono un compromesso politico con le élite criminali in funzione di voto, della stabilità politica e, soprattutto, della possibilità di mantenere aperti e gestire alcuni canali di riciclaggio ».

Un cenno a parte meritano i ricchi paesi petroliferi Mediorientali dove la tecnica della desalinizzazione delle acque è ampiamente utilizzata grazie all’abbondanza sia di acqua marina che di energia , soprattutto da fonti rinnovabili.

« in Medio Oriente, e in particolare nella Penisola arabica, il livello di desalinizzazione delle acque marine ha raggiunto ormai la maggiore densità mondiale: il 50 per cento di tutti i processi di osmosi inversa per le acque si realizza in Medio Oriente e il 34 per cento di tutta la desalinizzazione ha luogo in Arabia Saudita.

Gli Emirati Arabi hanno speso finora 3 miliardi di dollari americani per la desalinizzazione.

Ma desalinizzare costa e l’utilizzazione del gas naturale di Riyadh (e degli Emirati del Golfo) potrebbe giungere a un punto di svolta verso il 2040, non oltre,  quando si prevede che l’estrazione del gas e del petrolio sauditi satureranno la quota dei consumi interni.

Per il regno saudita, come per gli Emirati, l’alternativa sarà comprare terra agricola altrove per compensare il rapporto anomalo acqua/petrolio sul loro suolo e sostenere tre obiettivi strategici:

a) nutrire una popolazione in crescita senza intaccare l’equilibrio oil-water;

b) entrare nel mercato dei titoli sulle merci non petrolifere e su quelle alimentari, che Riyadh utilizzerà in equilibrio con la finanza petrolifera;

c) divenire un global player strategico anche fuori dal Golfo Persico. Riyadh  e Teheran, come anche altre capitali dell’area , sono dominate da una Wille zur Macht, una “volontà di potenza” globale che cresce in funzione in cui diminuisce la capacità espansiva degli “infedeli” ».

G.E.Valori e M.D'Urso.

G.E.Valori e M.D’Urso.

In Europa, a parte i progetti internazionali, ( Gaza, Singapore ), la dimensione idrica è questione, come accade in altre materie vitali, della politica interna degli stati, mentre la Ue mantiene solo un ruolo di coordinamento.

L’Europa pur avendo una delle legislazioni più avanzate nel settore è divisa da un divario abissale tra i Paesi tra Ovest e l’Est (cioè a dire i paesi dell’ex Patto di Varsavia).

Se nell’Ovest e nel Centro Europa « la connessione dei consumatori con le reti di raccolta delle acque “nere” e “grigie”è del tutto omogenea, con una media di allacciamenti alle reti di smaltimento dell’84 per cento, con picchi del 99 per cento in Olanda e del 95 per cento in Germania, e la media dei sistemi di purificazione e smaltimento ecologicamente razionale è delle più elevate del mondo dall’ Italia del Sud alla Svezia a Nord, ben diversi, invece, sono i dati riguardanti l’Est della Ue: solo l’1 per cento della popolazione di Romania e Bulgaria, per esempio, è collegato a sistemi di smaltimento delle acque reflue tali da garantire un certo grado di protezione ambientale».

A questo punto dell’amplissimo panorama descritto in “Geopolitica delle Acque” si arriva forse alla parte che, personalmente, mi ha più divertito ed appassionato della disamina di Giancarlo Elia Valori: la privatizzazione delle Acque.

La sottile ironia con cui affronta l’argomento – sempre con una documentazione di appoggio ineccepibile –  poi sfocia, a mio modesto avviso in quella che è una vera visione – non astratta ma concretamente propositiva – di Politica ( con la P maiuscola ) Industriale.

Valori infatti dopo aver fatto cenno ai consigli, del tutto “disinteressati” ca va sans dire, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale « che spesso funzionano come “banche di affari” nello stile anglosassone » che hanno indotto e inducono molti Stati a privatizzare i servizi di distribuzione e di gestione  delle acque, in astratto per ottenere nobili obiettivi come: favorire sul piano aziendale l’esercizio delle best practices ; per determinare un vantaggio comparativo nei mercati finanziari globali per i paesi che liberalizzavano l’acqua, ai quali veniva concesso un migliore trattamento per i crediti e i debiti sovrani; per aumentare gli investimenti nelle infrastrutture della distribuzione idrica, garantiti dai redditi in crescita e soprattutto dalla credibilità finanziaria delle aziende private della distribuzione delle acque; per liberare infine le nazioni, soprattutto nelle aree “terze”, da un carico di costi per l’acqua pubblica che, sommati agli altri, avrebbero accelerato la loro corsa verso il default finanziario.

Come è andata a finire ?

« Oggi si calcola che 862 milioni di persone siano “servite”da aziende private per l’acqua potabile e la gestione delle acque reflue, ma solo 272 milioni sono clienti delle prime cinque grandi aziende globali dell’acqua, mentre le più piccole,  spesso di livello nazionale o addirittura locale, hanno una clientela mondiale di 590 milioni di persone.

Evidentemente le grandi aziende multinazionali “entrano” nei mercati redditizi e con le migliori infrastrutture di distribuzione, mentre le aziende locali – nazionali, private ma spesso finanziate dagli Stati o dalle autorità regionali, hanno come mercato elettivo le zone a minore redditività, a più bassa produttività totale dei fattori del business idrico. Tra la popolazione che acquisisce acqua dai privati, 160 milioni si trovano nel “Primo mondo”, mentre sono collegati all’acqua di reti private 110 milioni di abitatnti del “Terzo mondo”.

In America Latina, dove ,in Bolivia la “battaglia di Cochabamba”, combattuta dagli agricoltori della zona nel 2000 per evitare la privatizzazione delle acque, ha “fatto scuola” in tutto il subcontinente, i piccoli operatori privati dell’acqua servono, soprattutto nelle città, il 25 per cento della popolazione e la proporzione è simile in Africa, anche se è più difficile reperire i dati.

Secondo la Banca Mondiale la privatizzazione ha favorito l’accesso all’acqua di buona qualità a ventiquattro milioni di nuovi consumatori a livello globale e la gestione ottimale delle reti nei Paesi del “Primo mondo” come in quelli del “Terzo” evitando la spesa burocratica e, soprattutto, la sottovalutazione dei costi di estrazione e purificazione delle acque che naturalmente inficiano la disponibilità di capitali pubblici o privati per il proseguimento del business.

Il problema è che, come ha dimostrato la crisi del reaganismo e la successiva crisi della finanziarizzazione dell’economia dalla fine degli anni Novanta a oggi, l’efficienza di una amministrazione è scarsamente influenzata dal titolo giuridico di proprietà della stessa.

Le differenze reali sono: a) la facilità di acquisizione dei capitali sul mercato finanziario da parte delle aziende (e certamente le grandi multinazionali dell’acqua e delle utilities, i pubblici servizi, hanno avuto, nella fase in cui il denaro costava pochissimo o addirittura nulla, un accesso privilegiato e poco “liberale” alla finanza globale); b) il rapporto di pressione, politico e sociale, tra la grande impresa di utility legata all’acqua e gli Stati o le comunità nelle quali si trova ad operare.

Inoltre, vi sono stati casi, soprattutto in America Latina, nei quali le aziende globali dell’acqua hanno fatto stripping: hanno acquisito le vecchie società locali pubbliche, le hanno immesse sul mercato dei capitali, le hanno temporaneamente ipervalorizzate, spesso con tecniche poco ortodosse, per poi vendere tutti gli asset finanziari e fuggire precipitosamente dal Paese.

Sul piano della profittabilità dell’investimento privato, soprattutto in America latina, il Roi ( Return On Investments), l’indice di redditività del capiatale investito, è relativamente basso, circa il 7-8 per cento fin dalle prime fasi della gestione.

Il motivo è facilmente intuibile: nei Paesi “Terzi”, ma anche in molti del “Primo mondo”, vi è un costo “politico” del rapporto tra le imprese e la pubblica amministrazione o la classe politica, che è in media del 5 per cento sul totale del capitale investito e viene scaricato direttamente sulle tariffe e quindi sui consumatori-elettori; abbiamo poi a che fare con una efficienza delle reti idriche talvolta, anzi spesso, pessima, proprio perché, come direbbero gli economisti della Banca Mondiale, le tariffe erano troppo basse e socialmente “calmierate”.

Infine vi è stata la tendenza, da parte di molti governi “terzi” a distruggere la rete pubblica per sostituirla con più o meno efficaci distributori privati, che creavano ad arte un “mercato del venditore” delle acque per aumentarne il prezzo, avere a disposizione una quota per il pagamento della “mazzetta” politico-amministrativa e pagare poco e con metodi sbrigativi i loro stessi fornitori. Il massimo degli utili con il minimo degli investimenti e il massimo di protezione politica o malavitosa. Esattamente come faceva la mafia siciliana nelle campagne, prima del “sacco (immobiliare) di Palermo”e dell’avvio del ben più lucroso business della droga ».

E allora andiamo a vedere chi sono le big ones dell’acqua e quali sono le politiche sull’acqua adottate in Occidente.

Guarda caso si può notare una coincidenza simmetrica tra la nazionalità delle big ones e quella parte di “sovranità” a loro devoluta dagli Stati, soprattutto Europei più ancora che USA, sulla gestione delle acque.

Dunque le big ones sono le francesi Suez, la ex Vivendi ora Veolia Environnement e la Saur, la britannica Thames Water ( antesignana delle società privatizzate dell’acqua) di proprietà del Macquarie Group-una banca di investimento australiana e sempre britannica la United Utilities, poi l’americana American Water.

Dunque se ne dovrebbe dedurre che l’Europa in particolare avendo i maggiori Big Players del mercato al loro interno adottino politiche ultraliberiste: niente affatto.

In Francia, ad esempio, è ben vero che avendo dei Campioni internazionali di primaria grandezza si è creato un oligopolio dei concessionari ma le autorità di bacino gestiscono dei diritti di prelievo piuttosto elevati, destinati  a finanziare la protezione della flora e della fauna.

Spesso l’utilizzo delle acque è legato alle “associazioni di comuni” che si occupano sia delle acque sia della gestione o dello stoccaggio dei rifiuti.

Le grandi Big Ones francesi, fortemente internazionalizzate, hanno una logica strategica unica: fornire alla Francia una forte autonomia idrica; evitare la presenza eccessiva del capitale straniero nelle società del settore; spingere per una elevatissima proiezione estera delle operazioni; integrare poi la rete delle comunità locali, tramite il sistema idropolitico, in una macchina finanziaria che crei una sorta di “collante”e la capacità di sostenere la classe politica nazionale e locale.

Quella che è stata la politica dei petroli in Italia negli anni Settanta è e sarà la gestione delle acque nella Francia del Duemila e oltre.

In Germania la gestione delle acque spetta ai comuni. Il 15 per cento delle società di distribuzione delle acque è di proprietà interamente municipale, antica memoria dello “Staatssozialismus”che nemmeno Marx disprezzava del tutto.

Il Parlamento Federale ha poi, nel 2001, negato la possibilità di privatizzazione del settore idrico.

Per la Spagna vale più o meno lo stesso discorso. « Anche qui siamo di fronte ad un investimento privato minoritario nel settore acqua, soprattutto da parte di imprese nazionali, come in Francia e, con criteri diversi, in Germania, cioè una sorta di protezionismo idrico che serve, da un lato, a fornire il capitale di rischio alle imprese globali del settore (Francia) o risorse per i comuni (Germania) e che sembra caretterizzare la sostanza del liberismo “gridato” di molte normative comunitarie».

« Se la Germania attua un socialismo municipale delle acque, la Gran Bretagna ha impostato un liberismo localista della sua distribuzione idrica: costi bassi delle amministrazioni locali, tariffe mediamente più alte che nel resto d’Europa, investimenti regolati da agenzie pubbliche del tutto separate dalle aziende controllate, ma d’altronde scarsissima, o nulla , proiezione esterna delle aziende idriche britanniche, diversamente dalla Francia».

« Nella Federazione Russa una quota delle quattro aziende private di distribuzione delle acque è già in mani straniere, sia pure in quote minime, ma la questione strategica è che tutte le aziende succitate servono aree urbane di non oltre due milioni di abitanti, il che le rende minoritarie rispetto al grande sistema pubblico o semipubblico.

Qui il criterio è diverso: controllo attento della finanza “idrica”per permettere un investimento preferenziale da parte delle aziende nazionali e una proiezione verso la gestione delle acque “dai ghiacci”dell’Est siberiano o del Nord artico, per evitare il dominio occidentale in un settore strategico che Mosca vuole mantenere nelle mani, pubbliche o private che siano non importa, della nomenklatura postsovietica».

« Diverso è il criterio per la privatizzazione delle acque in USA. Storicamente, almeno il 50 per cento delle società di servizi pubblici legati all’acqua è da sempre privata, ma il business è stato, dopo gli anni Novanta e qualche crisi periferica, acquisito con notevole aggressività dalle aziende europee del settore. La penetrazione del capitale europeo negli USA è di per sé una garanzia per al tenuta dei rapporti transatlantici».

Interessante e sempre strategicamente sottilmente abile l’approccio della Cina con la privatizzazione delle acque: l’azione è stata immediata e radicale.

« Nel 1980, il mercato viene rapidamente aperto agli investitori stranieri e aziende come Veolia, Suez, Thames Water che iniziano a investire nel Paese. Il sistema funziona con un “cap”,un limite fisso di reddito sugli investimenti , garantito dallo Stato cinese, che va dal 12 al 18 per cento del reddito lordodell’operazione. Pechino deve fare presto: secondo la Banca Mondiale, oltre il 50 per cento delle 660 città cinesi maggiori ha gravi problemi di sostegno idrico minimo alla popolazione, il 75 per cento dei fiumi e dei laghi, sono inquinati gravemente, e solo il 20 per cento delle acque reflue viene trattato.

In altri termini, il regime di Pechino sa che la catena del reddito nelle infrastrutture è lunga e, per favorire l’accesso agli investitori esteri, parifica di fatto il rendimento delle infrastrutture a quello delle manifatture.

All’ombra del mercato protetto, di fatto, dai sussidi del regime agli investitori esteri, sono sorti i grandi players dell’acqua e delle imprese di servizi pubblici cinesi.

Ovvero la Cina fa con l’acqua quello che ha fatto con le imprese mature del manifatturiero occidentale: mette in campo un recinto di meccanismi di mercato, determina un sistema di aiuti di Stato o di sostegni di fatto alle imprese, imbattibili nel resto del mercato-mondo, e aspetta, grazie anche a un battage pubblicitario globale, che le aziende occidentali accettino le occasioni d’oro che offre, e spesso, loro. L’idea è che si fa pagare all’investitore estero il costo delle condizioni negative, di fatto, della Cina, favorendo con un eguale criterio i suoi sovraprofitti a medio e breve termine ».

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Veniamo ora alla parte di “ Geopolitica delle Acque” che mi appassiona di più che è quella, come ho già anticipato dove Giancarlo Elia Valori, abbandonando il suo consueto aplomb di fine analista di geopolitica, esce allo scoperto, come se avvertisse la necessità, in un momento così pericoloso, non solo per l’ Italia ma direi per il pianeta Terra intero ( e chi più di Lui antesignano in Italia negli studi di geopolitica, manager e docente internazionale dagli innumerevoli contatti con le più importanti personalità mondiali può avere la piena contezza della gravità del momento )  di esporsi, e dopo aver fatto piazza pulita di tante ipocrisie che le Istituzioni internazionali hanno propinato celandole sotto teorie liberiste come panacea per l’ammodernamento delle infrastrutture ( in questo caso idriche) e del loro sostenibilità con criteri di libero mercato.

Valori comincia a sgombrare il campo con un’ affermazione chiara : « L’acqua, anche per le Nazioni Unite, è un diritto, non una commodity ».

«Come è stato spesso dimostrato dagli studiosi di econometria, l’acqua pubblica ha un costo medio minore di quella privata, a parità di qualità e di rete di distribuzione.

La politica di privatizzazione degli acquedotti in America Latina, avviata nel 2002 dalla Banca Mondiale in relazione alle politiche di “aggiustamento strutturale”che l’organizzazione finanziaria aveva posto in essere per quei paesi, ha generato non solo rivolte popolari ma, soprattutto, una ulteriore chiusura del mercato interno e, di conseguenza, la necessità indiretta di maggiori “aggiustamenti strutturali” dall’estero che, in condizioni di scarsità di risorse finanziarie anche per i paesi del Primo mondo, sono distruttivi per tutte e due le parti in campo.

Se non vogliamo che, anche per via della scarsità idrica annunciata dalle previsioni, si crei in questo settore fondamentale quella “criminalizzazione delle classi medie”che ha caratterizzato il commercio degli stupefacenti o di alcuni materiali anch’essi strutturalmente scarsi ( il rame in Cile,per esempio) allora dovremo pensare a una strategia di attacco della carenza idrica globale che veda il diritto internazionale, le organizzazioni umanitarie, i governi, le stesse istituzioni finanziarie private, le tecnologie, fuori dai vecchi steccati delle ideologie ormai vecchie e inadatte a capire e a gestire le grandi questioni globali che ci stanno davanti.

Finora , la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno giurato sulla Bibbia della privatizzazione  ma recentemente la International Finance Corporation, il “braccio”privatistico della Banca mondiale, ha deciso di investire sulle “giuste condizioni” per gli investitori privati, con un fondo denominato Ifc Infraventures che sostiene i privati nelle aree meno provviste di infrastrutture del globo, come l’Africa subsahariana e l’America Latina.

Il principio è evidente: fallita la logica della privatizzazione tout court, date anche le numerose rivolte avvenute sia in America del Sud sia in altre parti del globo, dove il passaggio immediato dal mercato protetto ( o iperprotetto) delle acque a quello libero ha provocato effetti politici di grande rilievo, anche all’interno di governi che avevano, fin dall’inizio, accettato la “linea”della Banca mondiale, si va verso una rete pubblico-privata dove una parte rilevante dei capitali di rischio viene fornita dalla Wb o dal Fmi per evitare uno “scarico”immediato sui consumatori di tariffe insopportabili, e la quota dei privati diviene subito minoritaria.

I dati al riguardo sono inequivocabili: con i suoi venti miliardi di prestiti per le infrastrutture idriche negli ultimi dodici anni, la Banca Mondiale non solo ha sostenuto, di fatto fuori mercato, le aziende che si sono inserite nel business delle acque nei Paesi “terzi”( e anche in qualche “secondo”) ma anche obbligato i singoli Paesi, con prestiti paralleli e collegati, ad accettare la liberalizzazione del loro sistema idrico.

Non è esattamente quello che si chiama un free market nel senso di Adam Smith. I fondi sono erogati soprattutto tramite la Ppiaf, Public- Private Infrastructure Advisory Facility, che però incontra qualche difficoltà sia nel reperimento dei fondi sia nei rapporti con i Paesi “terzi”in fase di privatizzazione idrica.

Il concetto sul piano della teoria economica, è piuttosto chiaro: le infrastrutture costano poco, e quindi sono interessanti per gli investitori privati, il rinnovamento delle reti è di solito finanziato, quando ciò accade, con fondi della Banca Mondiale o Fondo Monetario, che sono a tasso più basso dei capiatli che eventualmente le imprese potrebbero prendere in prestito dalle banche commerciali, le tariffe sono comunque in parte sussidiate dai governi, che non possono permettersi una sollevazione di massa, una “guerra dell’acqua”,soprattutto nelle condizioni di debolezza strutturale dei governi del Terzo mondo e infine le infrastrutture possono essere rivendute, qualora capiti, a strutture pubblico-private nazionali anch’esse finanziate da Banca mondiale e Fondo monetario, e il ciclo riparte.

Nella Banca mondiale, peraltro, la gestione dei finanziamenti alle attività “idriche”riguarda due direzioni, quella per le “Infrastrutture e l’ambiente”e un’altra per lo “Sviluppo socialmente sostenibile”.

In ogni caso il totale dei prestiti per il business delle acque globali ha raggiunto, dal 1990 al 2005, la cifra ragguardevole di 16,7 miliardi di dollari, mentre l’unità per la Water Supply and Sanitation, fondata da WB nel 2000 e che ha assunto su di sé tutte le questioni “idriche”, dal 1990 al 2002 ha concesso prestiti per 19,3 miliardi di dollari.

Il meccanismo è quindi ottimale per le aziende che possono accedere ai prestiti della Wb e del Fmi, che di fatto abbattono il rischio di impresa e di investimento, mettendo nel conto che le stesse organizzazioni finanziarie globali hanno ottimi argomenti per premere sui governi, controllarne l’attività legislativa e burocratica, e quindi abbattere dal loro lato il rischio politico dell’operazione».

Venendo al panorama italiano Valori si sofferma sulla situazione critica dei nostri piccoli players nazionali.

A parte la discutibile efficienza in patria la loro proiezione internazionale per scarsa massa critica e mancate ristrutturazioni interne è praticamente irrilevante.

Valori sottolinea come questo stato di cose non ce lo possiamo permettere a meno di scendere sempre di più per la china della marginalizzazione economica dai grandi affari.

Valori giustamente invoca « un’azione dello Stato, intesa a creare una “Eni delle acque”, che sarebbe di estremo interesse per il futuro delle imprese e della proiezione di potenza dell’Italia in futuro ».

Questo spunto di ampio respiro che ricorda gli anni dell’ENI di Mattei presuppone un progetto di Sistema Nazione Italia su cui si avvicendano da decenni numerosi architetti che teorizzano senza risultati concreti.

La necessità di realizzare un Sistema Italia basato sul partneriato Pubblico-Privato a partire dall’ Intelligence come sostegno alle nostre imprese è un chiodo fisso del sottoscritto che nell’ intervista in calce ha chiesto, a questo proposito, anche l’opinione di Giancarlo Elia Valori:

Abbiamo bisogno di creare un mercato interno equo ed efficiente, di ridurre il peso delle rendite di posizione della politica, della burocrazia parassitaria e delle professioni, il rinnovo del capitale fisso sociale, di istruire meglio un numero maggiore di giovani e puntare su centri di eccellenza, di offrire a cittadini e imprese meridionali adeguata protezione dal crimine organizzato, di creare uno stato sociale che non lasci indietro nessuno ma senza assistenzialismo.

Marcello Lopez   per   GeoIntel.Blog.4.Italian/SMEs

 

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