Per la serie «Quo usque tandem abutere, Casta, patientia nostra? » gustatevi queto breve ma MERAVIGLIOSO ARTICOLO di Ettore Bonalberti del 17 – 10 – 2014 per
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NOTA DELL’EDITORE
Prima della Rivoluzione, la Francia non era in alcun modo infelice, ma diventò “uno Stato povero in un paese ricco” a causa di una crisi finanziaria. Si è molto esagerato su questa crisi finanziaria, che, secondo quanto affermò Mirabeau, uno dei capi della prima fase della Rivoluzione, avrebbe potuto facilmente essere risolta in capo ad otto giorni. La situazione non era, quindi, insostenibile.
Ma una crisi intellettuale e morale aveva colpito l’anima francese fin nelle sue profondità. Anche i più piccoli conflitti venivano complicati fino a diventare esasperanti e, poi, disperati, mentre erano solo situazioni difficili.
I leaders rivoluzionari ne approfittavano per fare esplodere la Rivoluzione.
La notte del 4 agosto 1789
Tutti erano disposti a privarsi di privilegi secolari, che volevano deporre sull’ “altare della Patria”: le città cedettero le loro immunità, i vantaggi economici, le libertà municipali. Le province rinunciarono alle loro assemblee locali, ai loro vantaggi finanziari e politici. Alle 4 della mattina, tutte le vecchie istituzioni francesi erano scomparse.
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di Ettore Bonalberti
Lo scontro Renzi-Regioni sui quattro miliardi che il giovane fiorentino ha scaricato sulle spalle dei governatori, in una stucchevole partita dello scaricabarile tra esponenti della Casta, il primo stato della società italiana paragonabile a quell’aristocrazia e il clero dell’ancien régime, contro cui, prima o poi, si scatenerà l’ira del terzo stato (Grandi e PMI con i loro dipendenti, agricoltori, commercianti, artigiani e liberi professionisti, produttori del PIL reale del Paese sul quale vivono tutte le altre classi sociali)
ripropone il tema ormai maturo: basta con venti regioni e si riformi la Costituzione per dar vita a uno stato federale con quattro-cinque macroregioni.
Tutto andò per il meglio sino al 1970, anno di nascita delle regioni a statuto ordinario, nate con il compito di legiferare, programmare e controllare e che, invece hanno finito con il gestire a destra e a manca sino a diventare uno degli immondezzai più fetidi dell’amministrazione pubblica italiana.
L’Italia questi quasi mille politici a lauto stipendio fisso con tutte le derivate di enti e sotto enti di diversa natura e funzione, sostanzialmente non se li può più permettere.
L’avevano intuito lucidamente alla fine degli anni ’60 Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi, mentre il prof. Miglio, nei
successivi ‘70 elaborò le sue teorie alle quali spesso attingiamo.
E’ tempo di passare dalla teoria alla prassi.
Nord Ovest e Nord Est, una vasta area centrale e una grande regione del Sud. Basta con l’assurda realtà speciale di una Sicilia ormai fuori controllo e con le altre realtà speciali senza più alcuna giustificazione storico politica.
Non si tratta di ridurre la loro autonomia, ma di ricomporla in termini omogenei per tutte le quattro o cinque macroregioni alle quali assegnare esclusivi compiti di programmazione e controllo, lasciando allo stato federale centrale le già pur ridotte competenze in materia di moneta e fisco, spada e politica estera
e assegnando le funzioni gestionali in capo ai Comuni da ricomporre, dagli oltre ottomila attuali in dimensioni di “città nella città” in grado di offrire i servizi ai cittadini.
Una rivoluzione costituzionale che non è compito di un parlamento di nominati illegittimi e di un governo privo di ratifica elettorale.
Solo un’assemblea costituente eletta a suffragio universale con le regole del consultellum può ragionevolmente e correttamente dedicarsi a tale obiettivo non più rinviabile.
E lo si faccia prima che sia troppo tardi e che il terzo stato si svegli, passando dalla rassegnazione alla rivolta.